ATP Diary – Fra passato e presente, tre modi per dire la stessa cosa in pittura

Testo di Lara Pisu

All’ArtNoble Gallery, fino al 24 novembre, una mostra che continua a domandarsi sulle sorti della pittura nel contemporaneo attraverso la pratica di tre giovani artisti: Martina Cassatella, Emilio Gola e Roberto de Pinto.

Indissolubilmente legata alla storia umana, la pittura continua a essere una questione sempre aperta e pronta a offrire sempre nuove proiezioni, diventando lo specchio della cultura che cambia. La superficie bidimensionale della tela non smette di ammaliare, emanando quasi quello stesso amore che ha spinto Narciso a gettarsi nello specchio d’acqua. È una petit mort questa, capace di continuare ad attrarre a sé generazioni di artisti; si esprime così quell’inesauribile discussione – forse più maieutica – che è la pittura, dimostrandosi senza tempo.
Quella stessa pittura che a oggi si oppone alla smaterializzazione della vita, costringendo a un rapporto fisico e diretto con la sua materialità, opponendosi al non-fisico del mondo contemporaneo. E mentre Hirst brucia le sue opere per farle vivere solo in un universo immateriale, ecco che una serie di giovani artisti rivendicano la presenza del corpo all’interno dello spazio.

È così che l’ArtNoble Gallery presenta Tre modi per dire la stessa cosa, una mostra a cura di Antonio Grulli: un confronto fra tre pittori emergenti, Martina Cassatella, Emilio Gola e Roberto de Pinto che, oltre la fascinazione per la stessa superficie piatta, condividono la formazione, lo studio e anche l’amicizia (visitabile fino al 24/11).
Ognuno a modo proprio crea un’atmosfera coinvolgente, richiamando inevitabilmente l’interlocutore a sé fra seduzione, empatia e mistero, in un rapporto che prende vita all’interno degli spazi della galleria, cadenzati da leggere tende dorate che ritmano la visita della mostra conferendogli un’aria leggera, quasi di festa.
Un ritmo lento (umano) in cui non c’è nulla di concitato, tutto appare calmo e contemplativo: il tempo nelle tele è fermo, ozioso e cristallizzato, dove si attua una situazione intima fra il lavoro e chi lo osserva.

Martina Cassatella gioca su un luogo nullo, dove il tempo sembra non essersi ancora creato, un luogo in cui tutto è sospeso. Nell’Etere dei suoi quadri mistero e magia vengono fusi in un discorso che si consuma attraverso luce, mani e capelli – questioni fondamentali all’interno della storia della pittura – in una purissima tecnica a olio.

Fitte trame di capelli vengono distese e annodate da mani che propongono un proprio linguaggio, in una tensione perturbante in cui questo codice delicato si fa imponderabile. Oscilliamo così fra terrore dell’ignoto e un fascino magico, la proiezione di un culto misterico che con il suo torpore ci pervade: veniamo attratti dal dipinto come una falena è attratta dalla luce.

In Emilio Gola la temporalità viene eliminata privando di connotazione i luoghi in cui i suoi personaggi agiscono: rimanendo privi di riferimenti spaziali qui inizia a esistere un tempo indefinibile, che però si fa momento di scoperta di sé: la formazione identitaria che si ottiene attraverso la relazione, i limiti di un corpo compresi tramite lo scontro con l’altro e con l’oggetto.
Abbiamo così tre corpi aggrovigliati – corpi di persone vicine all’artista, dunque forme che provengono da studi dal vero – che vengono travolti (o forse fanno parte?) da un immenso mucchio di oggetti riversati su tela. In questo universo proprio composto da moltitudini, anche la pittura si fa tale: compaiono così olio, gessetti, acrilici, in cui pittura grassa e secca coesistono e vengono attraversate da differenti utensili, lontani dal mondo dell’arte, usati come stencil, timbri o retini. Ambienti in cui corpi intrecciati riscoprono la dimensione del gioco per trovare la propria identità, animati dagli oggetti dello studio, come scarpe e libri, che si moltiplicano diventando una marea.
E nel mare e sotto il calore del sole ritroviamo delle narrazioni in cui il tempo è bloccato in un attimo che diventa infinito, quell’istante dedito all’ozio in quanto attività rigenerativa.

Roberto de Pinto crea delle narrazioni dove ciò che viene presentato su tela esaurisce tutta la conoscenza di cui abbiamo bisogno: possiamo immaginare gli attimi appena precedenti al momento in cui tutto si ferma, che sembra coincidere con quel momento in cui il nostro sguardo incrocia quello dei personaggi. Uomini mediterranei che mostrano la propria pelle in atteggiamenti disinibiti ma mai volgari, che ci invitano a guardare i loro corpi e a goderne, attraverso i loro difetti che qui acquisiscono un’aura di sensualità. La pelle bruciata dal sole, ruvida, sussurra il suo bisogno di contatto e di essere dunque accarezzata; una sensazione che non abbiamo solo a livello virtuale ma stesso fisico: l’encausto – una tecnica che mischia pigmento e cera – crea quella che può essere definita una vera e propria epidermide (pittorica). Una materialità erotica che si propaga attraverso l’aria e che, priva di veemenza, si porge all’interlocutore e lo pone di fronte a una (non)scelta: accoglierla o restarne inevitabilmente attratto, così come lo sguardo di questi giovani pittori rimane attratto dalla pittura, un’arte che affascina l’essere umano da migliaia di anni.

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